In questo post vi racconterò qualcosa che forse più di ogni altra mi ha presa, da quando ho iniziato a declutterare: la sfida di vivere con pochi(ssimi) abiti. E scarpe, e borse, e accessori.
Da spendacciona consumista che ero, ricordo di aver raggiunto il picco quando una decina di anni fa – ossia nei miei 20 – il mio relativamente piccolo armadio di ragazza conteneva un intero cassettone di biancheria, uno di magliette, uno di maglioni, un intero stand di abitini e pantaloni. Nelle scatole nei ripiani in alto l’equivalente in quantità per il cambio stagione. Paradossalmente il più delle volte non sapevo cosa mettermi, piena com’ero di cose comprate per capriccio e quasi mai indossate, per mancanza di occasioni o perché incongruenti col mio stile quotidiano. Mettiamoci anche il fatto che sono sempre stata una col fisico a yo-yo vi siete fatti un quadro completo della situazione.
In parole povere un armadio pieno di roba inutile o quasi.
Qualche anno fa ho scoperto i mercatini dell’usato che mi hanno permesso di iniziare a smaltire una parte dell’accumulo di abbigliamento, ma non bastava, perché ai mercatini oltre a vendere (poco) compravo (tanto), fino al punto di ritrovarmi una taverna piena di capi firmati che a fatica tentavo, e sto tutt’ora tentando, di rivendere. Sono arrivata ad allestire una sorta di negozio in casa. Tutto questo ha contribuito a spingermi verso la ricerca di una soluzione.
Anche in questo caso Marie Kondo, con la sua vocina e il suo aspetto da folletto, mi ha messo la pulce nell’orecchio: tutta quella roba mi piaceva davvero? o mi stava soffocando? valeva davvero la pena di vivere con un magazzino in casa? Che tradotto in termini pratici significava anche polvere e in alcuni casi anche muffa (soprattutto su borse e scarpe). La risposta è no. Se da una parte rivendere vestiti usati mi ha portato qualche guadagno, dall’altra il cuore mi gridava che non volevo più vedere tutta quella roba in spazi che preferirei vivere liberamente.
Così -stavolta seriamente- ho iniziato a sfoltire. Sfoltire tanto. Sacchi e sacchi di vestiti e scarpe sono stati trasferiti a mercatini e spediti a siti tipo Armadio Verde (che acquisisce gratuitamente donazioni per poi rivenderle per beneficienza) e Rebelle (che vende conto terzi soprattutto merce firmata). Tante cose sono finite nei raccoglitori della Caritas. Diverse invece le ho vendute a privati, creando anche l’occasione di conoscere persone carine e gentili. Non sono diventata ricca, né di certo ho recuperato i soldi spesi nell’acquistare, ma qualcosa mi è tornato in tasca.
L’obiettivo potrebbe essere ora: vendo 5 golfini scadenti e col ricavato ne compro uno di qualità. E così voglio muovermi. A questo proposito mi sto impegnando a evitare i negozi di brand fast fashion, che sono a dirla tutta la maggior parte degli store in città. Per chi non lo sapesse fast fashion è quella categoria di marchi che continuano a buttar fuori collezioni, anche una alla settimana, per invogliare i clienti all’acquisto di merce che però viene prodotta in condizioni spaventose per l’ambiente e soprattutto i lavoratori-schiavi dei paesi del terzo mondo che la producono. Oltre a questo, per permettersi di vendere abiti a 15 euro, ne possiamo dedurre che la qualità non sia esattamente la migliore. Detto questo è difficile rimanere indifferenti al richiamo di shopping low cost, ma con un po di consapevolezza si può stare alla larga da Zara, H&M, Uniqlo (mio amato), Mango & co. Si può perché fa bene al portafoglio e al guardaroba e perché è meglio orientarsi verso scelte un tantino più etiche. E la prossima volta che vorrò comprarmi qualcosa, sarà perché ne avrò bisogno, perché avrò ponderato bene la mia decisione: un trucco può essere, come sto facendo, di fotografare il capo che mi ingolosisce e tenermi la foto nel telefono qualche giorno, se mi passa la voglia avrò raggiunto l’obiettivo, perché spesso è un impulso dettato da altro piuttosto che una necessità reale.
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